Un tardo pomeriggio di domenica ogni due


Passeggio per il centro tra la folla. Osservo i posti in cui sono stato e sovrappongo i ricordi a quello che vedo.
Seduto fuori dal bar per l’aperitivo, oppure a camminare davanti al cinema, verso piazza del Comune, guardo le persone che incrocio, le guardo in faccia. Magari c’erano anche le altre volte. E allora li scruto fino a quando non se ne accorgono e mi guardano negli occhi, sorpresi e inquieti fin quando non ci incrociamo per poi sparire.

La luce dei primi giorni di febbraio è bella, fa quasi male al tramonto. Ne vorresti ancora di quel rosa blu intenso sulle pietre di marmo bianco e verde, sulle facciate dei palazzi e sull’abside in mattoni rossi di San Francesco.
Mi appoggio ad un muro e mi fermo a guardare chi passa.
Mi appoggio a questo muro e lo accarezzo con la mano: i polpastrelli passano sulla pietra, le porosità, le curve morbide modellate dal tempo.

Guardo chi mi passa davanti come se vedessi degli esseri umani per la prima volta, ascolto stralci di vite che mi sfiorano accanto, qui sotto l’Imperatore.
Preferisco perdermi negli estranei e nell’immaginare piccole cose delle loro vite aliene piuttosto che ascoltare il vuoto dentro.
Sono un otre perfettamente vuoto, risuono basso e tondo.

Ho i capelli in disordine, troppo lunghi per essere corti, troppo in disordine per essere lunghi. La barba cresce senza alcun guardiano.
Sento le persone che mi guardano ma non faccio loro più caso: sono un pezzo di muro con la barba che sta imbiancando ed i capelli che sembro un pappagallo in calore.

Non evoco nessuna piccola magia, nessun trucco per riempire il vuoto.
Ci sto.