Ho undici, massimo dodici anni. Con i miei amici, quel gruppo duri e puri, compagni di scuola e vicini di casa e compagni di giochi quotidiani, da un mese all'altro da un anno all'altro, andiamo, appena la stagione lo permette, in un bellissimo parco poco distante dalle nostre case.
Il parco è dominato da tre colline, la terza con velleità di monte, percorse da sentieri del CAI e da centinaia di persone tutti i giorni (anche di notte ma a quei tempi non erano di nostro dominio).
Saliamo ridendo e scherzando, progettando fortini ed i sentieri si snodano tra pietra di origine lavica, travertino, cespugli e rovi, spelacchiati pini marittimi e qualche abete spaesato.
Il cuore batte a mille, un po' per la fatica di camminare veloci e parlare e ridere e scherzare e saltare e fare quello che fanno dei ragazzi, un po' perché tra un po' siamo in cima e saliamo per quello, per quello che accadrà appena arrivati su.
Vi porto ancora tutti con me, i vostri volti, le vostre voci, i vostri gusti e le vostre ansie che poi erano le mie, anche se lo avrei scoperto solo dopo. Vi porto con me adesso che si vede la vetta piana del Monte Ferrato e c'è il capanno del CAI che usano anche quei gruppi di svitati in pantaloni corti di velluto a coste e camicie azzurre (li invidiavamo? Li temiamo? Di sicuro loro hanno le ragazze e noi no).
Ci siamo, allora? Si fa? Uno di fianco all'altro, sotto di noi il parco, la città, la Piana. Si vede fino a Firenze da quassù.
Il vento soffia forte e ci scompiglia i capelli lunghi e sudici. Siamo già sudati, polverosi e ricoperti di ragia ma tanto siamo quassù per scendere, no?
E allora ci tuffiamo.
Iniziamo a correre, corriamo testa avanti, giù per il fianco della montagna. Non esistono sentieri, non esistono ostacoli in grado di fermare la nostra voglia di correre giù in picchiata. Saltiamo, curviamo, inciampiamo e continuiamo a correre incuranti delle storte, assolutamente incapaci di calcolare i rischi.
Corro, salto da un masso di sotto, direttamente dentro un cespuglio che cede di schianto sotto di me. Graffi ovunque ma nessuna ferita vagamente in grado di fermarmi.
Corro.
Rido.
Rido fortissimo a bocca spalancata mentre continuo a getttarmi in avanti. Lorenzo mi salta letteralmente sopra, di traverso, da un masso in alto alla mia destra e precipita, non c'è un termine più corretto, alla mia sinistra, dentro un avvallamento. Con la coda dell'occhio lo vedo correre ed io ho un alberello davanti che scanso, quasi completamente. Il braccio mi fa male ma non me ne frega nulla.
Rido ancora con l'adrenalina che pompa a mille. Tagliamo la strada a chi percorre i sentieri, ci urlano dietro rimproveri e moniti che il vento si porta via.
Derapate sui ciottoli e la ghiaia, sulla terra battuta, sulle foglie ed i rami spezzati.
Arriviamo in fondo, nella civiltà del parco con le sue panchine, le sue altalene e quella pace che è totalmente aliena al tumulto che abbiamo in petto, ancora davanti agli occhi, che ci pompa nelle vene.
Ci guardiamo con sorrisi folli, d'esaltazione e poi iniziamo ad accasciarci a terra, pieni di dolori che adesso si prendono la scena. Lamenti e risate, stesi sull'erba. Su un tramonto che vediamo passarci sopra la testa, perché coperto dal fianco della montagna.
È un tramonto estivo, probabilmente dell'estate del 1984.
Siamo noi.
Sono io.