Il cielo è coperto fin dove arriva lo sguardo, nubi scure striate di chiaro.
Il profumo di ginepro selvatico e della resina dei pini si mescola al salmastro del mare.
Mi siedo a gambe incrociate nella polvere, non fa né caldo né freddo.
Tiro fuori dalla borsa di cuoio che porto a tracolla delle bugie, come un “andrà tutto bene”, un “adesso vado a correre”, svariati “non ho molta pancia”. Le stendo davanti a me insieme alle paure come “non ne sarò capace”, “non le garberò mai”, “non sono abbastanza bravo” e un grande, grandissimo “ma cosa cazzo sto facendo?”
Sento i grilli frinire e le aramostre che fanno scattare le loro chele affilate, domandano all’infinito: “Didacevi? Didadoci? Damaciami? Didarami?”
Il vento mi muove i capelli che non vengono tenuti insieme dall’elastico, e i peli, molti ormai bianchi, bianchissimi della barba, lunga fino a metà petto.
Mi tocco il fianco, la mano sporca di sangue quasi rappreso. Il dolore pulsa sordo e continuo ma basso.
Mi alzo faticosamente in piedi, le clark sfondate, non porto calze.
Quel che ho disteso nella polvere adesso sembrano solo palline di gomma scolorita e di dimensioni differenti. Prendo la più grande, doveva essere rossa un tempo. La stringo nella mano e mi godo quella resistenza spugnosa da anti-stress. La lancio alle aramostre ma il dolore al fianco diventa lancinante e mi mozza il fiato, piegandomi in due.
Emerito coglione.
La torre di guardia è abbandonata, un rudere che soccombe al tempo e al mare che le sbatte contro. Ombra che sa di vecchio e umido, anche in alto, su una scala senza parapetto. Soffro di vertigini e non riesco a stare in piedi, mi appoggio con la schiena al muro, sperando mi sostenga.
Il rumore del mare da dentro sa di fragore e tempesta anche quando fuori è piatto.
Arrivo arrancando a quattro zampe fino in cima, la vetta è spazzata dal vento che urla contro chiunque s’affacci.
Il dolore al fianco è sparito, l’adrenalina fa miracoli, bellezza.
Mi tiro su, a fatica, le gambe molli, tremo. Il vento mi spinge prima dal mare, poi da nord. Barcollo prima da una parte, poi dall’altra, sempre al centro e più lontano possibile dal parapetto che mi circonda, in alcuni punti crollato fino al pavimento. Non guardare giù, mai. Alzo lo sguardo verso l’orizzonte, a ovest sul mare e a nord verso le montagne blu.
Mi sento più leggero, ho fame.
Sento un corno suonare da sud, forse riesco a intravedere qualche bandiera.
I miei piedi iniziano a muoversi goffi, seguiti da tutto il resto del corpo, ferita compresa.
Ballo una giga occitana, la giga della vittoria.