Luglio 1990, Marina di Castagneto Carducci.
Avevo diciassette anni la prima volta che feci l'amore.
Come avrei fatto ancora per alcuni anni a venire, ero solito trascorrere i mesi estivi al mare con la mia famiglia, stessa spiaggia, stesso mare. Gli amici di sempre, quei gruppi di ragazze e ragazzi provenienti un po' da ogni parte d'Italia che rinnovano il loro legame d'amicizia da un anno all'altro, praticamente senza alcun contatto intermedio, vuoi per la distanza geografica ma anche per quella implicita di appartenenza: eravamo gli uni degli altri, lì e solo lì, solo per quel periodo delle vacanze. Era la nostra vita insieme.
In ogni compagnia che si rispetti ci sono i leader carismatici, quelli più simpatici e un po' folli, ci sono ruoli di riferimento. Io ero amico di tutti, disponibile, simpatico abbastanza ma non avevo alcun ruolo di rilievo nella compagnia.
I mesi precedenti a quell'estate avevo conosciuto una ragazza più grande ed avevo preso una cotta micidiale, non era nemmeno una cotta, era pura attrazione fisica. Una sensazione mai provata prima, di cui non riuscivo nemmeno a scorgere i contorni. Quando ero con lei io non capivo letteralmente più nulla. Ero vergine, ignorante e completamente insicuro. Ero un orto da seminare, ero terra rigogliosa che aveva voglia e bisogno di germogliare.
Quell'estate lei venne a trovarmi al mare ed io per i miei amici sparii. E iniziarono a chiamarmi Invisible Man, proprio come la canzone dei Queen che passava alla radio in quei mesi. Ogni volta che risento quella canzone ripenso a ciascuno di loro, a quanto ho voluto loro bene, anzi a quanto li ho amati uno per uno.
Lei venne e una notte in pineta con un amplesso veloce e maldestro mi addentrai nell'età adulta.
Il giorno dopo lei ripartì. E nelle telefonate successive, appeso alla cornetta della cabina telefonica, sentii la distanza arrivare da lei, inconcepibile e fredda.
Ero stato un capriccio, un diversivo, sicuramente ero stato solo un episodio, come avrei scoperto con amarezza solo molti mesi più tardi.
In quei giorni invece ero semplicemente stravolto: era stato tutto lì? Avevo sbagliato io, sicuramente. L'avevo fatta scappare io? Probabile.
Sarebbe tornata?
Eccola la domanda che piegò la mia estate del 1990.
Passai le successive settimane a declinare inviti, a ridurre i dialoghi con chiunque mi rivolgesse la parola ai minimi termini. Mi chiusi nella lettura e in passeggiate interminabili, divenni davvero Invisible Man.
Eppure sapevo che non sarebbe tornata, lo sentivo alla bocca dello stomaco, dentro l'anima che no, non sarebbe mai tornata. Eppure aspettai, all'inizio.
Leggevo e pensavo. Pensavo e leggevo. E l'attesa divenne altro.
Quando fu il momento di smontare tutto e tornare a casa, chiesi a mio padre il permesso di restare da solo una settimana ancora. Non avevo mai fatto richieste di questo tipo e mio padre non si scompose, né mi chiese ragioni. Mi sorrise e mi disse: "ti vengo a prendere tra una settimana. Te chiama la mamma tutte le sere".
Quell'estate non ricordo nemmeno di aver salutato i miei amici. Di quell'estate ricordo solo una gran solitudine e la mia incapacità di capire alcunché: smarrimento, il mare e la Corsica lontana all'orizzonte. Sentirsi inadeguato e l'odore di umido della pineta, e l'ombra e i rumori attutiti e lontani, fuori dal blu e dentro al nero.
Quell'estate camminai di notte con Randall Flagg e poi nel deserto con la gamba spezzata davanti al fuoco con Stu Redman.
Quell'estate per me è Hey hey my my.
Quell'estate sono arrivate le mie camicie a quadri.
Quell'estate, proprio in quell'estate, in questo modo un po' storto, ho iniziato ad essere un uomo.